domenica 3 novembre 2013

IDEE E TEORIE POLITICHE. IL LOCALISMO COME DIMENSIONE IDEALE DELLA RAPPRESENTANZA. F. VENTURINI, Un sindaco all'ONU. Recensione a B. Barber, If Mayors Ruled the World , LA LETTURA, 3 novembre 2013

Nella sua ultima opera, destinata a far discutere quanto il bestseller Jihad vs. McWorld pubblicato nel ’96, il politologo americano Benjamin Barber porta alle estreme conseguenze una tendenza socio-politica vecchia quanto il mondo e tornata alla ribalta negli ultimi decenni: il localismo visto come dimensione ideale della rappresentanza democratica e della buona governance. Sfiorando la provocazione, Barber suggerisce nel suo If Mayors Ruled the World («Se i sindaci governassero il mondo») di far fronte al caos globale dei tempi nostri affidando il potere decisionale agli amministratori delle città. La manutenzione delle fognature, esemplifica l’autore con riferimento agli Usa, non è né democratica né repubblicana. E con il loro approccio libero dagli schieramenti i sindaci potrebbero rivelarsi assai più efficaci degli attuali governi e parlamenti nazionali, sostituendosi — in America come nel resto del mondo democratico — a classi dirigenti ormai paralizzate dalla dimensione delle sfide.



Andrebbe davvero meglio così, con i sindaci al timone? Ho l’impressione che non sia questo pur fondamentale quesito a ispirare Barber. La sua fuga in avanti vuole piuttosto farci riflettere, con l’efficacia di una proposta radicale, sulla perdita della «giusta rappresentanza» che affligge le nostre democrazie nazionali, e non trova nelle istituzioni internazionali, anch’esse malate, alcuna rete di protezione.
Converrà tornare con la memoria al paradosso che seguì l’evento-simbolo dell’ultima parte del Novecento: la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Allora un altro politologo statunitense, Francis Fukuyama, sbagliò ad annunciare nel nome di Hegel «la fine della storia», ma capì come tanti altri che stava per nascere una storia diversa. Con il superamento dei blocchi militari e ideologici in Europa e nel mondo divenne possibile, e fu presto realizzata, una globalizzazione economica sostenuta e incoraggiata dal libero utilizzo delle tecnologie informatiche. Ma in perfetta contemporaneità, quasi si volesse riequilibrare quella corsa ad abbattere le frontiere, riemersero un po’ ovunque antiche ambizioni localistiche, tenaci identità culturali, linguistiche o religiose, nuove e più forti richieste di rappresentanza.
In realtà due cambiamenti precisi soffiavano nelle vele della reazione anti-globalizzatrice e delle sue varie espressioni. Il primo fu la scomparsa della minaccia: l’esaurirsi della contrapposizione ideologico-missilistica rendeva improvvisamente superflua una disciplina di appartenenza prima resa obbligatoria dal prioritario bisogno di sicurezza. Il secondo fu la rivincita dell’economia sui cannoni: l’irruzione sulla scena della grande finanza globalizzata, la non più imbrigliata corsa delle banche al profitto, l’esplosione dei commerci, ma anche, ancora una volta per reazione, il ritorno delle spinte localiste o regionaliste talvolta concepite, come in Italia dalla Lega, per inserirsi nella globalizzazione senza doverne incassare i contraccolpi. Queste premesse aiutano a capire quando e come i sistemi nazionali e internazionali abbiano cambiato rotta sotto la doppia spinta del fallimento del comunismo realizzato e del trionfo della tecnologia del profitto.
Ma Benjamin Barber va oltre, e avanza una formula che è utopica prima di essere giusta o sbagliata. Quanti muri dovrebbero cadere nel mondo per consentire ai bravi sindaci di diventare governanti? Non occorre evocare la bancarotta di Detroit per sapere che anche le città, molte città, vivono problemi amministrativi, paralisi decisionali, litigi tra quei partiti politici che comunque negli organismi municipali conservano una influenza non indifferente. Non sarà la proposta di Barber a toglierci d’impaccio. Ma la sua sciabolata è utile là dove stimola il dibattito e incoraggia la ricerca di una via d’uscita da quella che Moisés Naím chiama «vetocrazia» (la paralisi imposta dalle minoranze alle maggioranze) e che potrebbe più semplicemente essere definita impotenza democratica. Gli Stati Uniti hanno appena fornito una dimostrazione di «vetocrazia» e di disordine decisionale. I danni di immagine e di credibilità provocati dallo shutdown sono stati gravi, ma è ancora più grave non sapere con certezza se l’accordo sul bilancio concluso alla venticinquesima ora andrà in archivio, oppure se nuove ricadute intaccheranno più seriamente la prima economia mondiale, contribuendo a quello che molti osservatori considerano già il «declino» dell’America.
E poi, vogliamo dare una occhiata in giro? L’anno che sta finendo ha portato in piazza proteste di massa dal Brasile alla Turchia, aspirazioni democratiche sono state variamente soppresse nel mondo arabo (diverse sono le cause del bagno di sangue siriano), e soprattutto ci siamo noi, c’è il laboratorio Europa. Populismo, questa è la parola che fa paura. Ma su questa parola bisognerebbe intendersi. Populiste sono le classi dirigenti, di governo o più spesso di opposizione, che tentano di cavalcare sentimenti sociali per ricavarne benefici elettorali. Ma nella base che poi (forse) andrà alle urne, cioè nel popolo, il termine populismo non ha molto senso. A meno che per populismo non si voglia intendere il desiderio di superare condizioni di vita fattesi più difficili, la ricerca di rappresentanza, la richiesta di politiche efficaci almeno nell’ambito di un «possibile» che nella Unione Europea si è fatto molto stretto. Le colpe dei politici populisti non dovrebbero essere identificate o addirittura nascoste dietro aspirazioni tanto normali in tempi di crisi se non di emergenza.
Il discorso però cambia, e deve cambiare, quando in Grecia avanza un partito neonazista come Alba Dorata, quando la ricerca del benessere diventa odio verso l’immigrato-concorrente, quando la corruzione si mangia ogni anno una fetta consistente del Pil comunitario, quando la disoccupazione diventa il trampolino di formazioni politiche organizzate che dietro il rifiuto dell’Europa tengono in serbo un rifiuto almeno potenziale della democrazia e dei suoi valori fondanti. Anche questi non andrebbero chiamati populisti, bensì eversori o semplicemente anti-democratici. Ed è pensando a loro che Jonathan Birdwell, al termine di una lunga ricognizione, ha scelto un sottotitolo tremendo per il rapporto Backsliders. Measuring Democracy in the Eu che ha da poco presentato a Londra: «La democrazia in Europa non è più un fatto acquisito».
Beninteso, resta molto difficile distinguere di volta in volta tra chi protesta contro l’Europa dell’austerità e chi invece sarebbe disposto o vorrebbe andare oltre, impugnando la bandiera di un ambiguo nazionalismo o di tardivi soprassalti sovranisti. Ma il pericolo esiste, perché i due vasi sono comunicanti e la democrazia elettorale offre essa stessa lo strumento che sulla carta ha la capacità di ucciderla. Come è già accaduto dalle parti di Berlino. Al dibattito sui pericoli per la democrazia, europea in questo caso, dovrebbe seguire una domanda forte: che fare, come prevenire il peggio? È in fondo l’interrogativo che ci pone tra le righe anche Benjamin Barber. Ma purtroppo le risposte non ci sono, o non meritano di essere considerate tali nella visione, oggi assai rara, di un bene comune. Talvolta i decisori politici si affidano a forme varie di demagogia che poi accrescono, quando le promesse si dimostrano false, la delusione e la rabbia. Talaltra governi e parlamenti scelgono di difendere il proprio residuo benessere negando solidarietà ai più deboli. Ma sempre risulta evidente un desiderio di non affrontare la minaccia più grave, di non guardare in faccia il pericolo di uno tsunami antidemocratico.
È vero che nell’Europa di oggi non molto si potrebbe fare. Comunicare meglio, a cominciare da Bruxelles, questo sì. Convincere la Germania a trovare un migliore equilibrio tra vantaggi ricevuti e pagamenti effettuati o da effettuare, anche. Ma soprattutto servirebbero statisti democratici da tempo di crisi, capaci di guidare invece di dormire con i sondaggi sotto il cuscino. E oggi non se ne vedono. Così come non si vede da parte degli Stati democratici o delle unioni di Stati la volontà di migliorare organizzazioni internazionali rapidamente invecchiate dopo il 1989, occasionalmente utili (si pensi alla Siria e all’Onu, ma soltanto dopo un accordo di vertice tra americani e russi), eppure non in grado di tenere sotto controllo le tante micce accese nel mondo post-blocchi. In realtà il sistema del dopo-Muro non c’è ancora, «negli» Stati democratici come «tra» gli Stati. E non lo si vede nemmeno all’orizzonte, a meno di credere che il modello pronto a conquistarci sia quella efficace ma assai poco attraente combinazione tra capitalismo e comunismo che Deng Xiaoping inventò per la Cina.
fr.venturini@yahoo.com

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