sabato 10 settembre 2016

UNIONE EUROPEA E BREXIT. F. BASSO, Così Londra sta aggirando Brexit: accordi bilaterali senza Bruxelles, CORRIERE DELLA SERA, 9 settembre 2016

Forse è una strategia per rompere il fronte comune europeo in vista dei negoziati o forse è davvero «confusione» politica, come osservano alcuni. Londra si è messa in moto per la Brexit anche se ancora non in modo ufficiale: ha intrapreso una serie di colloqui con alcune capitali, in perfetto stile british — raccontano a Bruxelles — lasciando trapelare la possibilità di accordi commerciali bilaterali, creando più di qualche imbarazzo nelle controparti nazionali.

Le mosse di Londra
I rumors sono arrivati ovviamente anche in Commissione, dove più di qualcuno ai massimi livelli si è infastidito. Tanto più che Londra ha detto di voler attivare solo agli inizi del 2017 l’articolo 50 del Trattato, la clausola di recesso dalla Ue vincolante per l’avvio dei negoziati che porteranno al «leave». I colloqui informali delle scorse settimane non rappresentano certo un comportamento sanzionabile, ma la percezione che Londra sia in movimento è chiara e la strategia scelta non molto gradita. C’è chi vi vede un modo per sondare il terreno e per cercare consensi con trattative individuali, strumentali al negoziato con la Ue, quando comincerà il confronto vero. La premier britannica Theresa May sa bene che nella Ue convivono 27 interessi nazionali, che peseranno quando il Consiglio europeo dovrà formulare le linee guida della posizione dell’Unione. Venerdì prossimo a Bratislava si terrà il primo vertice Ue dei capi di Stato e di governo senza Londra, e sarà l’occasione per un confronto tra gli Stati membri.
Il fattore tempo
La linea ufficiale al momento è che «serve tempo a noi e all’Ue per preparare i negoziati per la Brexit» (così due giorni fa la portavoce di May al termine di un incontro di oltre un’ora a Downing Street con il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk). Una delle prime mosse della Gran Bretagna è stata istituire il ministero del Trade. Proprio mentre le discussioni sul Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Stati Uniti e Ue, sembrano arenarsi, la premier Theresa May ha detto che vuole fare della Gran Bretagna un «leader mondiale del libero scambio». Su questo non ha perso tempo e a margine del G20 in Cina ha intavolato discussioni su possibili accordi commerciali bilaterali con Australia, India e Corea del Sud. Con Sidney è già stato lanciato il Trade Working Group che lavorerà a un accordo per quando la Brexit sarà effettiva. Una mossa così plateale che Steffen Seibert, portavoce della cancelliera Angela Merkel, mercoledì scorso spiegava durante il consueto appuntamento con la stampa che «la situazione è chiara: un Paese membro dell’Ue non può, finché ne fa parte, negoziare accordi di libero scambio bilaterali al di fuori della Ue». Insomma, Londra è avvertita. E data l’impostazione scelta dalla Gran Bretagna anche solo per attivare la clausola di uscita, per il «leave» ci vorranno diversi anni, probabilmente più dei due indicati dal Trattato.
Migranti e commercio
Il dicastero per la Brexit affidato a David Davis, che dovrà sedersi al tavolo con Michel Barnier, non è ancora al completo. Raccontano a Bruxelles che i britannici siano a caccia di esperti di affari comunitari anche tra gli stessi funzionari della Commissione, perché sanno che la trattativa si giocherà sui dettagli e chi meglio conosce i meccanismi comunitari sarà più in vantaggio. May non ha intenzione di scoprire subito tutte le proprie carte prima del negoziato, nemmeno in patria. Qualcuno dice perché in mano ancora non ha molto. Comunque ai deputati di Sua Maestà che le chiedevano aggiornamenti, May ha spiegato che non farà la «cronaca» del processo di uscita dalla Ue. Davis aveva definito come «molto improbabile» una permanenza del Paese nel mercato unico. Aprendo uno scenario interessante. May si è rifiutata di esprimersi su questo, quasi smentendo il suo ministro, e spiegando di voler ottenere dalla Ue il controllo sugli ingressi degli immigrati comunitari nel Regno Unito e «un accordo giusto» per gli scambi commerciali (nel 2015 il valore delle esportazioni di Londra verso la Ue è stato di circa 184 miliardi di euro e le importazioni dall’Europa di circa 303 miliardi, dati Sace). Londra vuole che «l’uscita sia soft». Sul come è tutto da vedere. Bruxelles aspetta le mosse della Gran Bretagna. Il presidente del Consiglio Ue Tusk ha spiegato, dopo aver visto May, che «la palla è nel campo del Regno Unito» e «l’obiettivo» dell’Ue è di «stabilire la relazione più stretta possibile».
I modelli di accordo
Gli esperti di diritto comunitario sono al lavoro e non solo a Bruxelles. Ipotesi circolano tra le banche d’affari ma anche nelle università. I punti di partenza sono gli accordi già in essere tra l’Unione europea e altri Paesi, come la Svizzera, la Norvegia o il Canada, che hanno specificità differenti. Ma potrebbe essere percorsa anche la strada di un accordo speciale proprio per la Gran Bretagna, tutto da definire e quindi molto complicato da costruire. SulCorriere, poche settimane dopo il referendum sulla Brexit, l’ex ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi aveva proposto di usare come base il trattato istitutivo dello «Spazio economico europeo» (See), perché garantisce un contesto di mercato senza barriere, in cui merci, servizi e capitali (quindi investimenti) e lavoratori circolano liberamente. Lo See recepisce oltre l’80% della legislazione Ue e lega i Paesi Ue a quelli Efta (l ’Associazione europea di libero scambio). Però i meccanismi See impongono le normative Ue e dunque la Gran Bretagna si troverebbe destinataria passiva delle regole dell’Unione da cui ha deciso di andarsene. Moavero metteva anche in evidenza i punti critici di una soluzione simile dal punto di vista britannico, problemi più politici che reali ma comunque presenti. Dal punto di vista comunitario rappresenterebbe però un messaggio chiaro per il futuro: chi lascia la Ue può unicamente accedere allo «Spazio economico europeo» e muoversi in un unico mercato con gli ex partner. Del resto tutti i modelli esistenti presentano pro e contro. Ad esempio se il punto d’arrivo fosse un accordo tipo quelli che la Ue ha con un qualsiasi Paese appartenente al Wto o con il Canada, Londra avrebbe certo il pieno controllo sull’immigrazione (uno dei cavalli di battaglia di chi ha sostenuto il «leave»), ma perderebbe il «passaporto» per i prodotti finanziari (una sorta di Schengen della finanza). Il «passaporto» finanziario è salvo, invece, se il modello è quello norvegese, che però non consente limiti al libero movimento delle persone. C’è anche chi ipotizza varianti «à la carte». È chiaro che negoziare i singoli punti richiederà tempo.

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