domenica 13 agosto 2017

LA MORTE DELLA SINISTRA. PER UNA BREVE STORIA DELLA SINISTRA ITALIANA. M. CACCIARI, La sinistra? Una storia recente di occasioni perse, L'ESPRESSO, 13 giugno 2017

Sinistri presagi sui destini della Sinistra chi avesse orecchi per intendere e occhi per vedere poteva avvertirli ormai da qualche decennio. Quando ci si affanna troppo a voler ri-semantizzare un termine, come appunto da troppo tempo avviene per “la Sinistra”, vuol dire che il suo tasso di convenzionalità esce a dismisura e che forse allora è più utile passare alla cosa. De nobis ipsis silemus, de re agitur, diceva quel tale. Tradotto in volgare: smettiamola di parlarci addosso intorno a identità perdute e diciamo con chiarezza, se ne siamo capaci, che cosa vogliamo fare e con chi.



Intere biblioteche hanno dimostrato l’assoluta inconsistenza di una visione statica, priva di profondità storica e culturale, della contrapposizione tra Madame Sinistra e Madame Destra col Centro in mezzo a completare il rassicurante schemino). La realtà è fatta di incroci e meticciamenti di ogni genere, di terre di nessuno, di tradimenti e fra-intendimenti, che non si dispongono mai in serie lineari, secondo i disegni teleologici cari ai “progressisti”. Categorie di ascendenza giacobina si possono trovare ovunque, così come, opposte a queste, altre di tipo organicistico-comunitario; teorie etiche dello Stato e, di contro, “religioni della libertà” trovano dimora a destra come a sinistra, e spesso si confondono all’interno di una stessa corrente. Perfino mitologie nazionalistiche non sono state nella storia appannaggio soltanto delle destre. Vi è destra conservatrice e destra rivoluzionaria; distinzione applicabile anche alla sinistra… almeno fino a qualche tempo fa. Non è guazzabuglio, è complessità, che sempre l’ignoranza, oggi egemone, si vanta di saper semplificare.



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Ma il limite essenziale di ogni tentativo volto a definire i confini tra destra e sinistra sta nel carattere quasi sempre astrattamente ideologico che esso ha finito con l’assumere. Il vero è che essere di sinistra nel Novecento comportava un riferimento materiale a classi sociali e a movimenti di lotta all’interno del sistema di produzione capitalistico. Verum factum . Essere di sinistra significava, nel suo fondamento, pensare che le lotte della classe operaia, massificata nel rapporto di produzione, costituissero il Soggetto di qualsiasi trasformazione sistemica, vuoi attraverso processi di riforma, vuoi attraverso salti rivoluzionari. Riformisti e “estremisti” si ritrovavano, infatti, su questa base filosofica comune: il movimento di classe operaia aveva un valore universale , esprimeva un fine autenticamente egemonico. Su questo piano l’opposizione a destre e centri restava davvero chiara ed essenziale.

La sinistra del Novecento è movimento operaio o, praticamente, politicamente, non è. E questo Soggetto esce vittorioso dalla Guerra Mondiale, ed è protagonista della ricostruzione europea. Poteva la Sinistra novecentesca sopravvivere alla sua fine? No, non poteva. Una grande trasformazione, del tutto comparabile con quella che aveva visto il nascere delle società industriali, ha rivoluzionato dalla fine degli anni ’70 organizzazione del lavoro, composizione sociale, rapporti di potere. Un’intera formazione storica tramontava. La sinistra europea ha rappresentato questo tramonto, a volte con nobile nostalgia, il più con indecente albagia.

Si sarebbe potuto, sulla base di un’analisi materialistica dei mutamenti avvenuti, tentare la costruzione di un movimento politico che svolgesse nella nuova epoca una funzione analoga a quella che, pur tra inevitabili divisioni, la sinistra aveva rappresentato nel tragico Novecento? Sì, si poteva. La fine della classe operaia non era la fine del lavoro dipendente, anzi. Era la sua proliferazione sotto le mentite spoglie dell’«autonomia». I disiecta membra del lavoro sociale, precarizzato e non, potevano essere sindacalmente e politicamente ricomposti? Potevano – ma occorreva vederli, impararne lingua e bisogni, farli valere. Essere dalla loro parte . Essere il loro partito , definire queste nuove centralità , e intorno ad esse costruire tutte le alleanze possibili.

Invece è stata la stagione del “popolo”. Che non esiste, che mai è esistito. I populismi vengono da qui. Dal crollo della vera responsabilità politica, che significa analizzare e decidere priorità, decidere chi e come sostenere, difendere, promuovere all’interno della complessità sociale. Non era più definibile una centralità operaia? Certo no. Ma diventava allora inevitabile inseguire la chimera del “popolo” e partiti della nazione? Certo no. Che cosa costituisce il fulcro dell’attuale composizione sociale? Intelligenza, cervello, cultura, innovazione. Stanno forse “al potere”? Costituiscono forse la cura essenziale di governi ed élite? Le cifre dei nostri bilanci dicono quanto. E allora era necessario costruire la forza politica che quei soggetti rappresentasse. O si crede che essi non esistano perché non timbrano il cartellino ogni giorno ai cancelli di fabbriche e uffici? Infine, la sinistra storica, sempre – è bene ripeterlo – in forme diverse, contraddittorie, spesso in osmosi con “il nemico”, ha costruito lo Stato democratico. Ma lo Stato nella sua forma burocratico-centralistica. Lo Stato che presume di porre sempre “la politica al comando”. Anche quest’epoca volgeva al termine già quarant’anni fa. I nuovi protagonisti della vita economica, sociale, culturale esigevano una forma-Stato diversa. Esigevano riconoscimento pieno delle proprie capacità auto-organizzative, del proprio ruolo politico generale. Si potevano costruire vere riforme istituzionali in questa direzione? Si dovevano. E giungiamo ora, invece, all’umiliante chiacchiera su una riforma elettorale, dove la sola, reale posta in gioco è avere a disposizione in parlamento manipoli di fedelissimi.

E a proposito di cooptati, clientele e cortigianeria varia. Esisteva pure nell’antica sinistra un certo spirito critico-eretico, una certa capacità di resistere a quel senso comune mortale nemico del buon senso, che oggi viene invece venerato da ogni parte. Non aveva vita facile, tale spirito, dentro l’allora “movimento operaio”, pure bastava a rendere indigeribili sia l’ossequio alle “leggi” dello statu quo, che il vacuo promettere, che le retoriche sugli “I can” e “I dream”, buone solo a coprire le quotidiane tragedie e le proprie impotenze. Naturalmente, questa avara eredità è stata la prima a venire stracciata.

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