sabato 14 ottobre 2017

TEORIE POLITICHE. PARAG KHANNA. E. GRAZI, Il nuovo medioevo, PAGINA UNO, 26, 2012

La rivista Esquire lo include tra le settantacinque persone più influenti al mondo: ex consigliere geopolitico di militari (il generale americano Stanley McChrystal) e di capi di Stato (Barak Obama l’ha scelto come consigliere per la politica estera durante la campagna elettorale), Parag Khanna è nato in India nel 1977 – 34 anni appena compiuti – ha vissuto negli Emirati Arabi, in Germania e negli Stati Uniti, e si è laureato alla Georgetown University. Ha lavorato per il World Economic Forum e attualmente dirige la Global Governance Initiative per conto della New America Foundation di Washington; nel 2007 è stato Senior Advisor per gli Stati Uniti per le operazioni in Iraq e Afghanistan; collabora con varie testate fra le quali il New York Times, il Guardian e il Financial Times e non disdegna il mondo dello spettacolo, tanto che è consigliere di Bono degli U2.

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Lo incontro a Venezia, dove ha appena ritirato il premio di saggistica ‘Antico pignolo’ per il suo ultimo libro How to run the world, edito in Italia da Fazi con il titolo: Come si governa il mondo. L’ipotesi del saggio vuole che ci troviamo in un Medioevo post-moderno, nel quale la gestione delle relazioni tra Stati, territori e popolazioni non passa più solo attraverso le diplomazie nazionali; la complessità odierna, dovuta a molteplici fattori – la crisi dell’Onu, le nuove tecnologie di comunicazione, la spinta demografica, la crisi ecologica ecc. – ha portato alla ribalta nuovi attori sovranazionali e gruppi di pressione, economici e non solo, che stanno aggiornando la diplomazia alle regole del XXI secolo, in quella che Khanna chiama la ‘megadiplomazia’ del futuro.
Qual è la sua visione dell’attuale situazione geopolitica mondiale?
Oggi il mondo si trova in un nuovo Medioevo, e questo dovrebbe renderci tutti molto più fiducioso per il futuro, perché occorre ricordare che il Medioevo si è poi evoluto nel Rinascimento. Ciò che è importante è che ognuno si sforzi di garantire affinché questo accada anche nella nostra epoca. È infatti finito il tempo in cui erano solo pochi attori a gestire i problemi globali e ora tutti noi possiamo e anzi abbiamo il dovere di essere artefici del cambiamento. Questo momento storico può essere assimilato al Medioevo perché come allora gli imperi asiatici (Cina) sono in crescita e il paesaggio è costituito da Regioni, non più da Stati. Non ci sono più grandi Paesi, né leader mondiali, ma molti attori internazionali che hanno sempre più peso e importanza: ricche multinazionali (come per esempio Microsoft), corporazioni, imperi della comunicazione (CNN), benefattori planetari (Bill Gates), famiglie potenti, movimenti radicali religiosi (Al-Qaeda), università (Georgetown University), mercenari (Blackwater), orde tribali (Pashtun), enormi flussi di popolazione (immigrati ispanici, nordafricani), Ong e social network. Tutti soggetti che oggi possono interagire nei modi più imprevedibili, spesso dando vita, nutrendo la crisi globale.
E qual è il dato positivo di questa situazione?
Pensiamo ai Paesi nordafricani: l’informazione serpeggia nel web, il popolo non ha più paura. Questo dà vita a un nuovo panorama diplomatico in cui non è più una sovranità ottocentesca a determinare il potere e in cui denaro e tecnologia sono grandi artefici del cambiamento. La vera novità, la speranza, sta nella megadiplomazia. Abbiamo tanti soggetti e ognuno propone delle proprie soluzioni, è importante che tutti cooperino per il raggiungimento di obiettivi specifici. Che si tratti di combattere il terrorismo, vincere l’Aids o rispondere in modo efficace ai cambiamenti climatici, la risposta non sarà quella di un singolo Stato perché la megadiplomazia ha superato la tradizionale diplomazia tra i vari Stati. E il dato più interessante è che questo ci costringerà a mettere da parte le ideologie. La saggezza collettiva si nutre di diversità perché l’insieme è sempre più intelligente delle singole parti.
Un esempio per tutti: il microcredito. A inventarlo non sono state le banche ma Muhammad Yunus, un bengalese noto come il ‘banchiere dei poveri’, che ha letteralmente battuto a piedi, insieme ai suoi collaboratori, centinaia di villaggi del Bangladesh, concedendo piccolissimi prestiti, anche di pochi dollari, che servivano per avviare singoli progetti imprenditoriali. Questo ha avuto anche importanti ricadute sull’emancipazione femminile perché ne hanno usufruito moltissime cooperative di donne. In questo modo, Yunus ha saputo creare sviluppo economico e sociale dal basso, e per questo ha vinto il premio Nobel per la pace, perché nel suo piccolo ha realizzato una grande rivoluzione: ha dato uno schiaffo alla Banca mondiale, regalando una speranza a milioni di poveri. La novità straordinaria è proprio questa: che il cambiamento parta dal basso.
Lei ha accennato al terrorismo internazionale: pensa che con la morte di Bin Laden sia cambiato qualcosa?
Purtroppo no. Non bisogna certo abbassare la guardia contro i gruppi radicali di ispirazione islamica, intanto perché molti di questi hanno obiettivi locali e poi perché non tutti sono organicamente legati ad Al-Qaeda. A prescindere dalla morte di Bin Laden, dall’11 settembre in poi l’allarme terrorismo in Occidente non si è mai allentato.
Da una parte il livello di attenzione deve rimanere alto, dall’altro possiamo oggettivamente dire che nella maggior parte dei casi siamo riusciti a contrastare efficacemente il terrorismo.
Il vero problema adesso è un altro: occorre prevedere una comune strategia di sicurezza per la zona del Golfo Persico. Pensiamo a Palestina, Israele, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Paesi che non cooperano tra loro, che continuano a portare avanti la propria politica ignorandosi o invadendosi. La situazione è malata e non va sottovalutata. Gli Usa e il mondo occidentale devono con chiarezza schierarsi in favore delle posizioni più liberali e appoggiare, nel mondo arabo, le riforme democratiche e la liberalizzazione dei vari sistemi politici.
I paesi arabi lottano per la democrazia, ma anche in Occidente fioriscono le rivolte, e non sono solo studenti e classi povere a scendere in piazza ma anche la classe media; lei, per esempio, è andato a toccare con mano la situazione sia a Londra che a New York, dove c’è il movimento Occupy Wall Street.
Il vero problema, per i Paesi ricchi, è che non sono stati creati posti di lavoro e servizi.
E l’Europa, come la vede? Crede che l’euro stia correndo dei rischi?
Al contrario, la crisi porterà a nuove soluzioni. Io auspico, per esempio, che si possa creare un ministero delle Finanze europeo. Nel mio libro Come si governa il mondo, ho anche spiegato che l’Europa è in tutto e per tutto un vero modello di megadiplomazia.
E l’Italia? Molti ci vogliono a un passo dal baratro, anche a causa di un debito pubblico particolarmente elevato. Crede che la scelta di un governo Monti, di cosiddetti ‘tecnici’, sia stata positiva? Com’è valutata all’estero?
È valutata molto bene. Un debito pubblico così alto si deve a scelte sbagliate maturate nel corso di molti anni. I politici, per loro stessa natura, sono portati a essere populisti e quindi ad assecondare più interessi, spesso a scapito del bene comune. Ecco perché, in questo momento, la scelta di un governo di tecnici è molto valida. Chi più di loro, che conoscono a fondo gli ingranaggi del sistema e sanno come mettervi mano, potrebbero salvare la situazione? E poi l’Italia non è l’unico Paese a essere in crisi, e basta uscire dai confini nazionali per accorgersene. Quello che serve, in questo momento, è maggiore stabilità, e Mario Monti è l’uomo giusto al momento giusto. È un esperto di economia e questo fa la differenza. La politica influenza i mercati e viceversa e lui saprà giocare le carte giuste per rispondere a quello che i mercati esteri chiedono, sistemando la struttura dell’economia.

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